Il romanzo dell’autore iraniano esiliato in Olanda, dove ha acquisito fama internazionale grazie alle sue opere, ci trasporta in un Iran in cui mito e realtà storica si fondono senza tensioni. Si tratta di un testo articolato, dove numerose vite si intrecciano sullo sfondo degli ultimi tormentati decenni che il paese ha vissuto, in un racconto non annebbiato dal rancore o da visioni distorte, ma anzi permeate da grande sensibilità e amore per la propria terra. L’elemento religioso ha rilievo nel testo, sin dal titolo, e Aga Jan, il capo della casa della moschea, ne mostra attraverso la sua fede il lato più profondo e vero, dando tanto grandi quanto inconsapevoli lezioni di umanità. Un islam lontano dall’immaginario collettivo, di cui non si negano certo le derive che l’Iran ha conosciuto ma che non ne oscurano affatto il senso autentico, universale. Abdolah non mescola ideologia e religione, descrive la storia dalla parte degli uomini, svelando i lati piccoli anche dei grandi, come quando ad esempio si sofferma sulla figura di Khomeini. Attorno ad Aga Jan, uomo forte, intelligente, apprezzato e stimato dalla comunità, verso cui non mostra rancore anche quando gliene darebbe motivo, che trova anche nei momenti più bui grande forza nella fede, attorno a quest’uomo ruotano le vicende dei personaggi della sua estesa famiglia, che prenderanno tutti strade differenti, dentro e fuori dall’Iran. A partire dalle due nonne, figure quasi mitiche, al limite tra realtà e immaginazione, ma vividamente tratteggiate, che vedranno un coronamento d’eccezione alla loro esistenza. Tutti i numerosi personaggi, anche i più marginali del romanzo, sono caratterizzati in modo peculiare, appaiono nitidi al lettore, che a fatica li potrà confondere. La capacità di definirli in modo così lucido, svelarne la psicologia, mostrarli nelle loro debolezze, contraddizioni o al contrario, solide coerenze appare un grande merito dello scrittore iraniano. Il romanzo vede una fine elaborazione dal punto di vista estetico, con il frequente inserimento di testi poetici, versetti del Corano, lettere. Il mondo persiano è evocato anche dal punto di vista linguistico, con i numerosi inserimenti di cui nel glossario si può trovare la traduzione in lingua italiana; ma non è quasi necessario andare alle pagine del glossario per cogliere il senso di termini non tradotti nel testo, in quanto appaiono così ben connaturati in esso da fugare ogni rischio di esotismo. Potremmo dire che La casa della moschea, nel raccontare un paese ricco, complesso e stratificato come l’Iran, assolve alla funzione di molti manuali, e dimostra come certa buona letteratura possa andare a fondo nella storia, aiutando chi rischia di avere una visione faziosa e limitata a comprenderla, rendendo giustizia, mantenendo distanza anche grazie al ricorso alla voce narrante esterna, senza però nascondere il profondo amore e rispetto per il paese di cui si scrive. Uno dei passi finali sembra chiudere il cerchio di questa saga familiare ma anche collettiva, con la voce di Shahbal, nipote di Aga Jan. Un rapporto, il loro, di profonda fiducia e rispetto, nonostante le strade dei due si siano divise: “Mio carissimo zio, continuo a scrivere. In questi anni non ho fatto altro che dare forma ai miei racconti. L’ho fatto per voi e per il nostro paese. Scrivo in un’altra lingua, adesso, e non so se esserne contento o se devo scusarmi con voi. Ma le cose sono andate così, non ho avuto il potere di farle andare diversamente. Ed è stata la mia salvezza: è stato l’unico modo per dare voce al vostro dolore e al dolore della nostra terra. Scrivo in un’altra lingua, adesso, ma cerco sempre di trasmettere attraverso i miei racconti lo spirito poetico della nostra bella e antica lingua. Perdonatemi” (p.448). Non vogliamo scivolare in banali sovrapposizioni, ma lo spirito dell’autore sembra trasparire nelle parole di questo giovane che manda la sua lettera da un paese rappresentato da un francobollo con un mazzo variopinto di tulipani, quello spirito che sembra combattuto nella scelta di scrivere in una lingua diversa da quella amata, ma che non riesce a fare altrimenti. Migrare significa anche questo.