Necropoli è un romanzo pubblicato nel 1967 nella lingua dell’autore nato a Trieste, lo sloveno, e tradotto a partire dagli anni Novanta in numerose altre. Si colloca sulla linea che da sempre accompagna le opere di Pahor, in cui si fondono esperienza di vita (e di morte) nei lager tedeschi, impegno politico, lotte per il riconoscimento di lingue e culture storicamente represse.
Il titolo sintetizza icasticamente quello che lo scrittore rivive in occasione di una visita al Lager di Natzweiler-Struthof, sui Vosgi, in cui è stato internato per aver preso parte alla resistenza antifascista slovena.
La sapiente abilità rappresentativa di Pahor permette al lettore di figurare quell’ «infinita voragine del nulla» in cui migliaia di corpi, «neri pezzi d’oscurità», si sono perduti (57). Una necropoli è, letteralmente, ciò che riempie ogni pagina del romanzo, ossia una città di morti, un luogo in cui le coordinate temporali non esistono più ed il tempo è fluido. Tale ovattata sensazione di sospensione è rafforzata anche dalla sapiente alternanza verbale presente-passato che non abbandona mai la scrittura. Lo sguardo dello scrittore ripercorre i sentieri di quell’incubo, che sconfina di continuo dal passato al presente – quest’ultimo personificato in una comitiva di visitatori – che difficilmente può comprendere cosa quei luoghi rappresentino.
Tuttavia, commiserazione e pietà non rappresentano le note peculiari del testo, in cui si descrive con lucidità il destino di migliaia di «ossa umiliate» (131) in vita ed anche in morte. In alcuni passaggi si coglie anche il rammarico per non aver reso adeguato onore a questi caduti: «Sento risvegliarsi in me l’indignazione per il modo in cui, è storia di ieri, noi sloveni abbiamo trascurato chi faceva ritorno da queste colonie di sterminio, e peggio ancora chi non ha avuto tale fortuna […] Ma perché? Perché l’aureola di eroi per quelli che caddero col fucile in mano o aggrappati alla mitragliatrice, e un ricordo appena accennato, se non il silenzio assoluto, per quelli che furono erosi dalla fame? Perché vi siete sbarazzati in modo così arrogante di un ospite sgradito? Chi nella retroguardia rendeva possibile la battaglia al combattente non era forse eroico quanto il ribelle armato? Non era addirittura più eroico, dal momento che, una volta catturato, poteva confidare soltanto nella propria forza di carattere, mentre l’eroe che adesso è coronato di gloria aveva tra sé e il corpo del nemico un’arma da fuoco con cui sostenere il proprio coraggio? Perché due pesi e due misure?» (232-233).
Pahor include anche se stesso in questo “voi”, in quanto reduce colpevole di non aver sottolineato abbastanza «l’importanza della nostra abnegazione» (233).
Il senso di colpa per essere sopravvissuto, per essersi piegato all’istinto di sopravvivenza, per la condizione subumana in cui è talvolta precipitato durante la prigionia è un sentimento che non sembra abbandonare lo scrittore. Egli tuttavia non ne viene annichilito, ma trova la forza di ritornare su quei luoghi e parlare di ciò di cui è stato testimone.
Il disprezzo di uomini verso altri uomini e la sofferenza che ha prodotto aprono comunque, nella chiusa, a spazi di speranza: l’immagine finale di bambini e giovani, «germogli dell’immortale stirpe umana», (263) sembra infatti aprire uno spiraglio di luce dopo tanto buio.