Leggendo l’ultimo romanzo di Elvira Mujčić il primo aggettivo che salta alla mente è "profetico", nel senso che racconta delle tensioni che esplodono in un piccolo paese del Kosovo in cui si acuisce lo scontro tra serbi e albanesi, anticipando esattamente la cronaca di queste settimane (maggio e giugno 2023) in cui centinaia di manifestanti hanno chiesto di rimuovere dalle cariche di sindaco i funzionari albanesi eletti con il massiccio boicottaggio dei cittadini serbi alle elezioni amministrative dello scorso aprile.
In realtà, come afferma anche l’autrice in un’intervista non occorre essere veggenti per comprendere le tensioni pronte a esplodere in seno a una convivenza faticosa in un territorio costruito a tavolino. Il romanzo, con ironia sottile che si esprime appieno nel finale, dà voce a tutte le istanze, evidenziando abilmente i meccanismi, web incluso, che gettano pericolosamente benzina sul fuoco. Un passaggio emblematico del tema centrale del romanzo, ossia l’identità, o meglio, quanto essa sia l’esito di un costrutto e come le paure intorno alla sua paventata perdita si alimentino, è, a parere di chi scrive, il seguente e si riferisce a Miroslav, neoeletto sindaco serbo, per bocca di un suo avversario: “Si è messo in testa assieme ad altri privilegiati, sì, privilegiati, perché solo gente del genere ha tempo di filosofeggiare sui massimi sistemi, dicevo, si è messo in testa che bisogna andarsi incontro, fare una politica di riappacificazione, che se si vuole rimanere a vivere in questo paesino, non deve essere un percorso a ostacoli, ma una vita degna. Certo, tutto molto bello, ma della nostra identità che ne sarà? Della nostra storia e della nostra lingua? Della nostra religione? Non se lo chiedono, anzi deridono chi con giusta preoccupazione cerca di ricordare al popolo che è un attimo perdere tutto” (121). La convivenza è roba da intellettuali che non vivono la quotidianità percepita da chi parla come continuamente minacciata: “il quadratino siamo noi, siamo qui soli, in mezzo a un mare di albanesi e dobbiamo resistere” (122).
In questo climax di tensione crescente, ma sempre descritta con delicato, e talvolta divertito, distacco, chi legge incontra una galleria di personaggi sfaccettati e a tutto tondo: le figure femminili risultano, a parere di chi scrive, particolarmente interessanti e forse anche vincenti: Nada, moglie del sindaco, che pare trovare un equilibrio raccontato attraverso la metafora del giardino su cui si ostina a piantare semi non adatti a quel clima, per capire poi che non si possono fare forzature (e questo potrebbe valere anche come metafora politica); Ludmila, donna inquieta, ritenuta folle (il Nomen Omen che apre il romanzo lo dichiara sin da subito, in quanto Ludmila significa “cara alla follia”) ma in realtà coraggiosa e appassionata, la cui colpa è solo il suo incontenibile bisogno d’amore.
Come spesso accade nei romanzi di Mujčić, la descrizione di un microcosmo si trasforma in lente per comprendere processi molto più ampi, in atto in territori anche altri e distanti rispetto a quello qui descritto, ma attraversati da dinamiche affini: la percezione per cui l’altro è una minaccia alla propria identità è assolutamente trasversale a tanti contesti, come lo sono i meccanismi per cui chi cavalca l’onda del populismo e della demagogia, dicendo alle persone ciò che si aspettano, le conquista.