
Nell’agosto del 2015 la Libia è un paese travolto dalla guerra e l'autore di questa storia è un giovane di 20 anni. È uno studente di ingegneria, una promessa del calcio libico, alle spalle una famiglia pronta a sostenerlo nel suo sogno: raggiungere l’Italia e l’unica strada è salire a bordo di un barcone insieme a tre amici. Durante quella traversata 49 persone muoiono soffocate dentro la stiva. Accusato di essere uno degli scafisti, Alaa Faraj continua ad affermare da dieci anni la sua innocenza.
A cura di Gabriella Ghermandi, Kossi Komla-Ebri e Italia Vivan.
Una antologia a cura di Cristina Ali Farah e Livia Apa.
Un dialogo tra due generazioni di donne, autrici e voci in diaspora, che ancora troppo spesso si tende a etichettare come categoria “altra” nel vasto universo editoriale italiano. Ma se scrivere è di per sé un atto politico, la letteratura può diventare uno strumento per uscire dalle maglie oppressive di una visione bianco-centrica e raccontare un presente reale, in una direzione diversa dall’unica che viene considerata possibile.
Intrecciando la storia tumultuosa dello Sri Lanka e lo sfondo della provincia italiana, le vite di quattro donne si incontrano, mentre tentano di andare avanti ritornando indietro, a casa.
Storia di mia vita, autobiografia di una persona senza dimora, apre una finestra a cui di solito i cittadini non si affacciano, in genere limitandosi a un gesto di fastidio, ad una frettolosa elemosina o a un 'ha scelto una vita così'.
Scelta?
Come nella tradizione che ha origine negli anni Novanta, anche questo libro è l'esito di una collaborazione, anzi potremmo dire amicizia profonda, tra una persona immigrata in Italia e una italiana le cui strade si sono incrociate al punto che l'una ha raccolto la voce dell'altra per farne una pubblicazione.
Non è da tutti capire che in questo nostro piccolo mondo in cui il dilemma è pandoro o panettone, non c'è posto per un PALESTINESE TRISTE.
Andreea Pavăl vive in Romania con la madre e la sorella. Il padre, invece, è emigrato a Torino per lavoro. Questa distanza riempie la vita delle tre donne, le cui giornate trascorrono al ritmo dell’assenza, dei messaggi da inviare, delle telefonate da fare, delle parole che si devono dire per mantenere il legame. Intanto a Andreea l’Italia arriva attraverso piccole istantanee, come una pubblicità: i programmi televisivi, i giocattoli, i pacchi che spedisce il padre.
Leggendo l’ultimo romanzo di Elvira Mujčić il primo aggettivo che salta alla mente è "profetico", nel senso che racconta delle tensioni che esplodono in un piccolo paese del Kosovo in cui si acuisce lo scontro tra serbi e albanesi, anticipando esattamente la cronaca di queste settimane (maggio e giugno 2023) in cui centinaia di manifestanti hanno chiesto di rimuovere dalle cariche di sindaco i funzionari albanesi eletti con il massiccio boicottaggio dei cittadini serbi alle elezioni amministrative dello scorso aprile.
Scego ritorna, con questo corposo romanzo, al memoir, riprendendo alcuni dei temi de La mia casa è dove sono, approfondendoli e rendendo più lucido, a se stessa e a chi legge, cosa significhi essere figli della diaspora, vivere vite sospese e precarie, sentire la nostalgia struggente di un paese amato ma dimenticato dalla comunità internazionale e insanguinato da una guerra pluridecennale.
Igiaba Scego mescola la lingua italiana con le sonorità di quella somala per intessere queste pagine che sono al tempo stesso una lettera a una giovane nipote, un resoconto storico, una genealogia familiare, un laboratorio alchemico. Come una moderna Cassandra, Igiaba Scego depone l’amarezza per le ingiustizie perpetrate e le grida di dolore inascoltate e sceglie di fare della propria vista appannata una lente benevola sul mondo, scrivendo un libro sul nostro passato e il nostro presente, che celebra la fratellanza, la possibilità del perdono, della cura e della pace.