Scego ritorna, con questo corposo romanzo, al memoir, riprendendo alcuni dei temi de La mia casa è dove sono, approfondendoli e rendendo più lucido, a se stessa e a chi legge, cosa significhi essere figli della diaspora, vivere vite sospese e precarie, sentire la nostalgia struggente di un paese amato ma dimenticato dalla comunità internazionale e insanguinato da una guerra pluridecennale.
La parola che ricorre è Jirro, traducibile letteralmente come malattia, che lacera i corpi dei personaggi raccontati, che somatizzano, ognuno a suo modo, il trauma della guerra e con esso la perdita delle speranze per la rinascita di un’intera nazione. È una scrittura terapeutica, come dichiara più volte l’autrice, quella a cui fa ricorso, per raccontarsi e raccontare senza infingimenti la storia della sua famiglia in forma di lettera a una nipote che vive in Canada.
Tuttavia la scrittura è stata uno strumento salvifico da sempre, nonostante non abbia mai potuto offrire stabilità e certezze: Scego si interroga infatti molto sul mestiere della scrittrice, sul suo riconoscimento pubblico, sulla precarietà del lavoro intellettuale, perlomeno in Italia, che tratteggia più con amarezza che con rabbia, senza nascondere l’ansia che le infligge. Un’ansia dettata anche dal corpo femminile che con l’età cambia, che si ammala, un corpo con cui si è fatto a botte, sin da adolescente, ma che poi si è imparato ad accettare e ad amare. Naturalmente ciò è collegato strettamente al tema del colore, quando ti rendi conto che la norma intorno a te è bianca e tu sei “l’unica persona nera nella stanza” per citare il libro di Nadeesha Uyangoda. Scego cita spesso, peraltro, altri italiani neri che raccontano un’Italia che fa fatica a riconoscere i figli degli immigrati come suoi cittadini (sia formalmente che di fatto).
Il corpo, insomma, è uno dei temi che, da sempre cari all’autrice, attraversa le pagine di questo romanzo, e che permette anche di decostruire alcuni supposti determinismi quali la maternità, raccontando ad esempio il bellissimo e commovente ruolo delle zie, a cui peraltro il libro è dedicato.
Igiaba Scego mescola la lingua italiana con le sonorità di quella somala per intessere queste pagine che sono al tempo stesso una lettera a una giovane nipote, un resoconto storico, una genealogia familiare, un laboratorio alchemico. Come una moderna Cassandra, Igiaba Scego depone l’amarezza per le ingiustizie perpetrate e le grida di dolore inascoltate e sceglie di fare della propria vista appannata una lente benevola sul mondo, scrivendo un libro sul nostro passato e il nostro presente, che celebra la fratellanza, la possibilità del perdono, della cura e della pace.