di Luisa Pachera
Io dei cacciatori amo i cani. Non conosco tanti cacciatori e nemmeno tanti cani. Conosco un cane che forse è di un cacciatore. Si chiama Barát. Io lo chiamo Barát perché così lo chiama l’uomo col fucile, ma non so se è il suo nome. Spero di sì, perché Barát mi piace. Anche alla mamma piace. Dice che siamo uguali, quasi fratelli e ha ragione. Lui ha il muso e io la faccia, ma il pelo è uguale. Ho i capelli rossi come lui. Nel mio paese ero l’unico con quel colore e Hafiz mi prendeva in giro. Non solo lui, ma lui non avrebbe dovuto perché era mio amico. Chissà dov’è ora Hafiz…, è partito prima di me e forse ha già trovato una casa con la scuola giusta. Vuole diventare acrobata, ma non so se esiste una scuola che insegna le acrobazie. Io voglio studiare da maestro, ma forse cambio idea e faccio il veterinario dei cani. Barát ha una brutta cicatrice sulla schiena, larga, spessa e senza peli, quando la sfioro, lui si gira e mi lecca la mano. Papà non è contento. Non vuole che mi tocchi e nemmeno che mi stia vicino, dice che non è mio e appena lo vede, lo scaccia. Lui però torna sempre e se domani mattina viene con me, allora è mio di sicuro. Partiamo all’alba. Papà non l’ha detto, ma io lo so, è tutto il giorno che ne sento parlare. Sottovoce, sempre sottovoce, ma io ho le orecchie buone. Partiamo a piccoli gruppi, così non diamo nell’occhio. La mamma mi ha detto di preparare la sacca e di andare a letto vestito, così ora aspetto che sorga il sole e penso a Barát che forse non tornerà. Il bosco è fitto e scuro. Siamo partiti col buio e ho gli occhi pieni di sabbia. Barát non c’è e mi manca, avrei voluto salutarlo, dargli il pezzo di formaggio che gli avevo tenuto da parte, grattargli il pelo tra le orecchie. Non è colpa sua se non è qui, lui non poteva sapere che avremmo attraversato la foresta di notte, è difficile, non vedo neanche i miei piedi. Piove. Il bosco finisce su un reticolato alto e bagnato. Papà e mamma parlano sottovoce, toccano il filo spinato indecisi. Si avviano, io sono con loro. Seguiamo il recinto sperando in un varco. Sentiamo abbaiare. Un uomo lontano impreca cattivo, un altro risponde ridendo. Ho paura. Papà prende in braccio la mamma con la sua pancia tesa e pesante, mi dice di correre. Lei piange e mi allunga la mano, io non la prendo e scappo. È l’alba. Mi fermo, mi guardo attorno e non vedo nessuno. Sono solo.
foto Federica Filippi
Mi viene incontro un cespuglio. Corre verso di me, verde e spinoso, lucido. Mi nascondo e mi graffio la pelle, piango o forse piove. L’uomo è solo. Esce dal bosco col fucile in braccio. Si ferma e si guarda attorno. Mette le dita in bocca e fischia. Silenzio. Ha il volto coperto da un berretto. Fischia ancora, nessuno risponde. Avanza verso di me col filo spinato alle spalle. Mi metto le mani sugli occhi, non voglio guardarlo. Mi vedo correre come il vento, ma non mi muovo, non ho gambe per alzarmi, sibilo piano il mio respiro. Un rumore entra nella mia testa, ma non mi sposto, aspetto che il male mi prenda, so che è vicino. Non succede. Aspetto ancora. Abbasso le dita e apro gli occhi. Oltre il cespuglio vedo la pioggia cadere sull’erba. Sfrigola, fruscia, sussurra. L’uomo non c’è. Un altro rumore mi scuote. Barát sta correndomi incontro. È lui, nuvola rossa tra il grigio del cielo e il verde dell’erba. Mi trova e mi lecca la mano, poi il viso, guaisce pian piano. Io batto i denti e sorrido. Aspetto, lui si allontana, poi torna. Esco e lo seguo sul prato. La fossa è profonda, si apre tra l’erba come bocca affamata. Sassi, rami secchi e terra scura coprono in parte l’uomo sdraiato, scomposto, svenuto. Ha il viso sporco, ma lo riconosco. Vorrei scappare prima che si svegli, prima che imbracci il fucile e chiami i suoi amici. Altri cacciatori. Cerco mio padre con lo sguardo, non oso chiamarlo. Barát mi lecca la mano, mi chiede una cosa che provo a negargli. Insiste. Scendo nella buca e comincio a spostare la terra. È fredda, bagnata, si attacca alle mani. Sul bordo del fosso si sporge Barát, poi appare mio padre coi capelli incollati alla fronte, mi allunga una mano, la muove impaziente. Ci penso, resisto. Lui scuote la testa e scende in silenzio, vuol farmi salire, scappare lontano, ma piega le ginocchia e scava con me tra la terra, sposta il fucile, poi prende le gambe dell’uomo che geme, singhiozza pian piano. Il cacciatore apre gli occhi, ci guarda e non parla. Torno sul prato. Afferro le braccia dell’uomo che mio padre solleva e mi porge. Io tiro, lui spinge, lo sdraiamo sull’erba. Nell’aria c’è un fischio lontano, risa, guaiti, il tempo che avevamo è finito. L’uomo si siede a fatica, scuote la testa stordito, si gira e guarda il bosco alle spalle, poi dice qualcosa a Barát che muove la coda, saltella. Un gesto con la mano sporca di terra e lui corre veloce al recinto. L’uomo lo indica e ci fa segno di andare, di seguire il mio amico verso un varco nascosto. Verso un futuro sognato. (Barát in ungherese significa “amico”)