
Si tratta di dieci racconti, alcuni già apparsi, e premiati, ma che valeva la pena rivedere insieme, arricchiti da testi nuovi, per avere una visione d' insieme della ricca identità culturale "trasversa" dell'autore.Abbiamo qui infatti sia le vicende di un immigrato in Italia e le sue "doppie" nostalgie, la sua condizione di "doppia assenza" sia la rievocazione della cultura tradizionale del suo luogo d' origine, il Togo, rievocato attraverso personaggi pieni di vita.Il testo è stato pensato per la scuola, ma una volta tanto ciò non nuoce al gusto della lettura: la curatrice, Giovanna Stang
Si tratta di storie diverse nel tempo e nello spazio, ma i protagonisti sono accomunati da una dolorosa impossibilità di esprimere le proprie opinioni e di professare il proprio credo. Ebrei per lo più, o rivoluzionari traditi nei loro sogni, schiacciati dal meccanismo del potere che loro stessi hanno contribuito ad instaurare, personaggi vivisezionati con la precisione ed il distacco di uno studioso che sta redigendo un’asciutta cronaca.Con questo volume di racconti l'autore supera la cornice biografica e soggettiva per aprirsi alla storia contemporanea.
E' questa la storia di una famiglia vista attraverso gli occhi e le parole di un ragazzo, con in primo piano, prepotente, la figura del padre, allucinato predicatore. Alcolizzato e fanfarone, egli resta affascinante e al centro dell’attenzione del figlio, nonostante le sue sempre più prolungate assenze e la sua definitiva scomparsa. Con i racconti Pene giovanili ed il romanzo La clessidra questo testo costituisce una trilogia centrata sulla figura del padre.
Il secondo romanzo dello scrittore senegalese, che segue, dopo qualche anno, Io, venditore di elefanti, testo autobiografico a cui Pap Khouma deve la sua notorietà, presenta tratti molto diversi dal precedente. È ambientato nel Sahel, zona dell’Africa che include anche il Senegal, e vede come protagonista Og, un uomo che ritorna a casa, dopo anni di lavoro come infermiere a Milano, per trascorrervi un periodo di ferie.
«Come ci si sente da clandestini? Male. Oltretutto si entra in concorrenza con chi sta male quanto noi. Un immigrato deve subire, tacere e subire, perché non ha diritti. Deve reprimere dentro di sé ogni reazione, svuotarsi di ogni personalità. Subire con la consapevolezza che questa è l’unica possibilità».